Tranky Doo routine: le origini

Tutti conosciamo il Tranky Doo, una routine di solo jazz estremamente divertente che, come lo Shim Sham, si esegue in gruppo negli eventi di ogni parte del mondo.

La sua origine, tuttavia, è ancora avvolta nel mistero: qualcuno sostiene che sia stata coreografata dal ballerino Pepsi Bethel, altri da Frankie Manning. Misteriosa è anche la scelta del brano “The Dipsy Doodle”, di Chick Webb ed Ella Fitzgerald, su cui generalmente viene ballata: infatti Dipsy Doodle ha una tipica struttura musicale blues a 12 misure, mentre la struttura della coreografia è quella tipica dello swing AABA a 32 misure.

Cosa si nasconde dietro a questi dubbi e a queste apparenti incongruenze? Qual è la verità? Proviamo a scoprirla insieme!

Frankie Manning, nella sua autobiografia, racconta che a metà degli anni ’40 lui e il suo gruppo di ballo, i Congaroos, erano soliti, durante gli spettacoli, integrare le loro performance di lindy hop con esibizioni di jazz routine. Una di queste era proprio il “Tranky doo”, che Frankie dice di aver coreografato e battezzato così in onore della ballerina che lo aveva ispirato, la “chorus girl” soprannominata Tranky Doo e conosciuta al Club DeLisa di Chicago.

Qualche volta, negli show, mentre le “chorus girl” uscivano di scena, una delle ballerine più talentuose si posizionava a chiusura della fila facendo alcuni passi diversi dalle altre prima di andare dietro le quinte. Quel ruolo spettava a “Tranky Doo”. Io usai i suoi passi di uscita (fall of the log, shuffle, boogies) come inizio di una routine costituita da altri passi di jazz…” (libera traduzione dal libro “Frankie Manning – Ambassador of Lindy Hop”, pag. 209).

Frankie, a suo dire, prese dunque i movimenti visti fare da Tranky Doo (“fall of the log”, “shuffle”, “boogies”) e li utilizzò come inizio di una routine lunga due periodi musicali, qualche volta impiegata dai Cangaroos quando veniva chiesto loro il bis. Frankie racconta inoltre che portarono il Tranky Doo anche al Savoy Ballroom, dove ben presto si diffuse tra i ballerini e nelle serate di social dance.

Un esempio di quella che doveva essere la routine originaria lo troviamo in un film del 1947, “Love in Syncopation”, nel quale i ballerini Thomas (Tops) Lee e Wilda Crawford (anch’essi facenti parte dei Whitey’s Lindy Hoppers, vinsero l’Harvest Moon Ball nel 1940) si esibiscono ballandolo sulla canzone “Broadway”, eseguita da Henry Woode e la sua Orchestra:

Sempre a detta di Frankie Manning, la musica originale su cui veniva ballato il Tranky Doo era invece “Tuxedo Junction”, composto nel 1938 da Erskine Hawkins e dal sassofonista Bill Johnson.

Ma allora come mai molto spesso la paternità di questa coreografia viene attribuita a Pepsi Bethel?

Il ballerino Scott Cupit, autore del libro “Swing Mania”, a proposito del Tranky Doo scrive: “Una nota interessante: Norma Miller mi ha detto che Pepsi aveva preso questo stroll da Whitey e confessato anche di non apprezzare molto questa strana coreografia” (cfr. Scott Cupit, “Swing Mania”, pag. 187). La “Regina dello Swing” sembra quindi, in qualche modo, collegare il Tranky Doo a Pepsi Bethel, ma in realtà non si trovano prove certe a riguardo.

Unica certezza è che quando Mura Dehn, ballerina e regista, nel 1950 si recò al Savoy Ballroom per girare alcune scene di ballo per un film documentario sulla storia della danza nera americana, “The Spirit moves”, Frankie Manning partecipò al progetto solo per un breve periodo: il Tranky Doo fu quindi ballato per lei da Al Minns, Leon James e Pepsi Bethel, con l’aggiunta di due periodi musicali a chiusura della routine. Si potrebbe dunque ipotizzare che sia stato coreografato da Pepsi solo il finale e che sia nata così la diceria che lo vede come autore dell’intero pezzo.

La leggenda che associa il Tranky Doo a Pepsi Bethel potrebbe essere nata anche perché nel film documentario la coreografia viene ballata sul brano con il quale attualmente è nota, ossia “The Dipsy Doodle”. A tal proposito è però bene precisare che la canzone è stata inserita nel documentario successivamente, quindi non sappiamo se Al, Leon e Pepsi abbiano effettivamente ballato su questo brano: se così non fosse si potrebbe spiegare anche l’incongruenza fra la struttura musicale e quella della coreografia.

In ogni caso, sebbene il risultato presente nel documentario sia abbastanza simile alla coreografia così come la conosciamo oggi,  a essa manca ancora la parte finale, che è stata eseguita per la prima volta da Al Minns e Leon James in una delle loro apparizioni televisive nel programma “American Musical Teather” con lo storico Marshall Stearn trasmesso dalla WCBS-TV il 3 dicembre del 1960 (Cfr. “Jazz Dance”, Marshall e Jean Stearns, pag. 426).

Riferendosi proprio al finale del Tranky Doo, il ballerino e insegnante internazionale Bobby White nel suo blog Swungover scrive: “Non sarei sorpreso se il finale “box step and shout” fosse un’aggiunta “rapida e indolore” di Al e Leon per rendere la routine più lunga per uno spettacolo”.

Insomma, nonostante si vada a cercare indietro nel tempo tra storia, aneddoti, racconti e curiosità, risulta molto difficile individuare con certezza a chi vada attribuita la paternità del Tranky Doo.

Ma alla fine è davvero così importante? Il ballo evolve, cambia in modi non sempre conoscibili o documentabili, perché lascia spazio all’espressività e alla personalità di ciascun ballerino. Questa evoluzione è pura magia ed è ciò che caratterizza la vera tradizione della musica e della danza jazz, per la quale una coreografia può essere tessuta da più mani e diventare speciale proprio perché espressione sia di uno spiccato individualismo che di un senso d’insieme comune.

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